
di Francesco Loretucci
(Psicoterapeuta e Docente di Psicologia Generale in convenzione presso la Sapienza Università di Roma)
Uno degli ambiti psicosociali dello stress più studiati è quello che si riferisce alle professioni sanitarie. Il lavoro umano non è mai in modo esclusivo semplice produzione di “cose”. Questa considerazione è particolarmente evidente nel campo terapeutico ed assistenziale. Si presenta, infatti, principalmente come un insieme di prodotti/servizi, di lavorazioni/processi che si intrecciano con le aree maggiormente
problematiche della soggettività umana, con i vissuti dolorosi del limite e dell’incertezza, con il timore della malattia e della morte. Sofferenze psichiche e somatiche mobilitano nei pazienti la circolazione di istanze emotive primarie e di richieste regressive, evocando nel personale di cura sentimenti di livello
simmetricamente profondo. Il “mestiere di curare” non può prescindere dalla relazione tra persone, tra chi richiede e chi offre aiuto. Per vivere e lavorare sufficientemente bene e per provvedere per quanto possibile al benessere degli altri, occorre che infermieri, medici, psicologi e le altre figure sanitarie abbiano prima di tutto cura di sé stessi. È necessario quindi che l’operatore sia formato appositamente per riconoscere e gestire tutte quelle istanze emozionali spesso ambivalenti che emergono dal contatto, a volte frustrante, con la sofferenza dell’altro, mettendolo in grado di gestire i sentimenti che ne derivano e non esserne travolto. Freudemberg (1974) utilizza per la prima volta in ambito sociosanitario, riferendosi allo stress lavorativo, il termine Burnout (bruciato, scoppiato). Con tale espressione si indica una condizione di esaurimento fisico ed emotivo, riscontrata tra gli operatori impegnati in professioni di aiuto, determinata dalla tensione emotiva cronica creata dal contatto e dall’impegno continuo ed intenso con le persone malate e le loro sofferenze. Ne deriva un senso di impotenza dovuta alla convinzione di non poter far nulla per modificare la situazione. Questa condizione può portare ad un esaurimento delle energie psicofisiche da parte degli operatori generando diverse manifestazioni:
a) Sintomi fisici quali fatica, mal di testa, disturbi intestinali, insonnia, uso eccessivo di farmaci.
b) Sintomi psicologici quali senso di colpa, negativismo, depressione, alterazioni dell’umore, scarsa
fiducia in sé stessi, scarsa empatia e capacità d’ascolto.
c) Reazioni comportamentali sul luogo di lavoro quali litigi, assenze o ritardi frequenti:
d) Cambiamenti di comportamento nei confronti dei pazienti, cinismo, spersonalizzazione dei
rapporti.
e) Tensioni in famiglia
Non esiste una terapia specifica realmente efficace per un quadro di manifesto burnout. L’unica
soluzione per evitarlo o attenuarlo è la prevenzione. L’azione va attuata a diversi livelli:
a) Organizzativo Istituzionale: lavorando sulle discrepanze fra l’individuo e l’organizzazione quali il
sovraccarico di lavoro/carico di lavoro sostenibile, remunerazione insufficiente/riconoscimento e
ricompensa, crollo del senso di appartenenza comunitario/senso di appartenenza ad una comunità.
Bisogna promuovere i valori umani all’interno del contesto lavorativo e creare un sistema che si
occupi di risolvere i conflitti di valori nelle organizzazioni. Questo potrà accadere quando si
diffonderà la consapevolezza che il burnout è non solo un costo emotivo per le persone colpite ma
anche un costo economico e di efficienza per le organizzazioni. È importante inoltre, nella gestione
quotidiana del “mestiere del curare”, evitare l’ipercoivolgimento del singolo modulando la distanza
tra operatore ed utente favorendo il lavoro di equipe quale fattore protettivo nei confronti del
burnout.
b) Personale. Nelle professioni di aiuto l’operatore è obbligato a confrontarsi con tutti gli avvenimenti
della vita umana. È necessario che il soggetto sappia mantenere distinto il suo coinvolgimento
emotivo legato al lavoro da quello relativo la propria vita privata. A livello istituzionale la
prevenzione del burnout deve quindi prevedere la creazione di strutture di sostegno all’interno
dell’equipe lavorativa. Se vi è uno sbilanciamento di energie investite tra la vita privata quotidiana e
il mondo del lavoro e se soprattutto manca una reale rete affettiva non avviene il necessario
rifornimento energetico per affrontare lo stress lavorativo. Risulta quindi essenziale avere un forte
sostegno familiare ed una adeguata e positiva rete relazione lavorativa.